Secondo il CIAM- Centro Italiano Anti Mobbing, il mobbing è un fenomeno che riguarda in prima persona circa 12.000.000 lavoratori in Europa e circa 1.500.000 professionisti in Italia.
Si tratta di un evento la cui portata è sotto gli occhi di tutti e, ormai da anni, assistiamo all’articolarsi di politiche volte a tutelare e risarcire le persone che si ritengono vittime di questa esperienza.
Uno dei principali studiosi ad aver contribuito alla condivisione e all’esplicitazione del fenomeno è stato Leymann, che nel 1996 lo definì come un susseguirsi di “messaggi ostili e moralmente scorretti, diretti sistematicamente da uno o più individui verso un solo individuo, il quale, a causa del perpetuarsi di tali azioni, viene posto e mantenuto in una condizione di impotenza e incapacità a difendersi. Le azioni di mobbing si verificano molto frequentemente (almeno una volta alla settimana) e per un lungo periodo di tempo (per almeno sei mesi). A causa della frequenza elevata e della lunga durata del componente ostile, questo maltrattamento produce uno stato di considerevole sofferenza sul piano mentale, psicosomatico e sociale”.
La complessità che questo tipo di situazione mette in luce, rende necessario l’utilizzo di chiavi di lettura diverse tra loro: il contributo del medico, dell’avvocato, del giudice e dello psicologo si intrecciano per offrire una risposta personalizzata ed esaustiva alle richieste di aiuto del mobbizzato.
Scegliendo come focus il tentativo di comprendere da un punto di vista psicologico l’esperienza che una persona affronta quando vive una situazione di mobbing, una prima ipotesi è che l’individuo si trovi davanti a delle invalidazioni continue. Egli progressivamente, scopre che le proprie teorie su se stesso come lavoratore, sul suo capo/o sui suoi colleghi non gli sono più utili e predittive per portare avanti la sua vita in azienda. Ai suoi occhi, qualsiasi cosa egli faccia, viene squalificata o ostacolata e il suo contributo viene denigrato al punto da sentire di non avere vie d’uscita. La persona spesso sente che la strada migliore diventa quella di abbandonare il posto di lavoro e, dal punto di vista della psicologia dei costrutti personali, questa scelta è elaborativa nella misura in cui può consentire di mantenere ancora intatta un’idea di sé di un certo tipo, diversa da quella che gli viene rimandata costantemente dai suoi pari o dal superiore.
Inoltre, sebbene il termine mobbing descriva un’esperienza che nasce sul luogo di lavoro, le sue implicazioni vanno ben oltre l’aspetto professionale della vita di un individuo. Seguendo le ipotesi avanzate da Kelly (1955) possiamo ipotizzare che il nostro modo di conoscere il mondo (sistema di costrutti) sia articolato in modo da prevedere relazioni ordinali tra costrutti: i cambiamenti che riguardano idee di noi stessi su cui basiamo la nostra identità comportano dunque delle variazioni anche ad altri livelli ed è comprensibile dunque come l’esperienza del mobbing possa risultare così pervasiva nella vita delle persone che si trovano ad affrontarla.