Biologi e scienziati hanno da tempo approcciato la natura con uno sguardo che va oltre ciò che risulta semplice e quantificabile. Di fronte a fenomeni complessi, per anni gli studiosi si sono mossi per comprenderli operando delle riduzioni: cercando cioè di scomporli in piccole parti, che potessero essere analizzate a partire da leggi fisiche e matematiche ben note. Nel corso del tempo, i vantaggi di questo approccio sono stati innumerevoli e hanno permesso di iniziare a conoscere fenomeni che altrimenti sarebbero stati inapprocciabili. Tuttavia, come ogni paradigma scientifico, anche quello riduzionista col tempo ha messo in luce i suoi limiti e, proprio in virtù di questi, è stato superato.
In particolare, intorno agli anni ’70 si è cominciato a comprendere che una simile scomposizione faceva perdere di vista la complessità del sistema da cui le singole parti originavano. Nasce quindi il modello antiriduzionista, forte di ipotesi assolutamente innovative, che faranno la differenza non solo in ambito scientifico, ma anche per lo studio dei sistemi aziendali. Per comprendere come sia possibile, in ambito business, far riferimento a un paradigma che nasce in tutt’altro contesto, può essere utile riepilogarne alcuni degli aspetti salienti. In primis, viene fatto chiaro che, anche se riduciamo un fenomeno a delle leggi fondamentali, queste leggi non sono poi sufficienti per spiegare fenomeni più grandi e complessi. Questo perché più i sistemi divengono complessi, più è possibile osservare proprietà nuove, che appartengono esclusivamente a quel livello e che fanno emergere dinamiche globali uniche e peculiari.
Ma veniamo dunque al mondo del management. Potremmo paragonare quanto accadeva fino all’inizio del secolo al procedere delle scienze che seguivano il modello riduzionista. In azienda, l’obiettivo era leggere situazioni semplici, portando avanti obiettivi inseriti in un contesto pressoché stabile e conoscibile. I piani formulati venivano portati avanti e sistematizzati, riducendo da un lato la possibilità di rischio, ma dall’altro ostacolando anche l’emergere creativo di altre strade, di altri piani d’azione e di altri successi. D’altra parte, il contesto attuale richiede di tenere conto di tutti quei cambiamenti che a più livelli si stanno affrontando. Un approccio legato alla complessità, punta piuttosto sul poter sottoporre a revisione continua i processi decisionali e le scelte di business, lasciando aperte possibilità anche non programmate, riconoscendo cosa non funziona e ridirezionando i propri interventi sulla base di quanto emerge. Per rendere concreto questo cambio di rotta, è stato necessario anche un cambio nello stile di leadership, che in un’azienda di questo tipo non può più essere in mano a pochi. Se di complessità stiamo parlando, va da sé che non può essere affrontata da un’unica persona, o da un pull ristretto di dirigenti. È necessario implementare una cultura della responsabilità che punti a creare le condizioni affinché tutti i lavoratori, a vari livelli, siano in grado di sostenere un ruolo più pro-attivo e meno meccanicistico, trovando un proprio senso personale nel portare il proprio contributo in azienda. Ciò che emergerà sarà molto di più e molto diverso da quanto potremmo osservare in ogni singolo lavoratore, e le regole che governano il cambiamento dell’azienda non sono probabilmente le stesse che informano quello personale.
In maniera molto simile a quanto inteso da H. Maturana nel parlare di accoppiamento strutturale, potremmo immaginarci due livelli interconnessi: quello individuale e quello aziendale, in cui i cambiamenti e gli scambi possono essere letti in un’ottica circolare (e non causale). Non sempre è importante comprendere se il cambiamento ha origine dal manager o dalla cultura aziendale, ciò che conta è che certe caratteristiche personali, certe scelte, fanno scattare dei cambiamenti strutturali a un livello più elevato e globale, che a sua volta ha il medesimo effetto di attivare dei cambiamenti nelle persone che vi lavorano.