Se desideri vincere qualcosa puoi correre i cento metri.
Se vuoi goderti una vera esperienza corri una maratona. Emil Zátopek
La maratona rappresenta una delle massime sfide atletiche. Si tratta di affrontare uno sforzo fisico a cui il corpo umano, in teoria, non è predisposto. Le energie che un corridore può immagazzinare dureranno al massimo 32 km, mentre la gara consiste di oltre 42 km. Ad ogni passo le risorse diminuiscono, i muscoli si fanno più pesanti. Per arrivare al traguardo l’atleta deve dosare le sue energie, deve programmare la sua corsa valutando bene le sue possibilità e i vincoli dati dal tracciato. Tanto più si avvicina al traguardo, tanto più aumenta il desiderio di fermarsi, riposarsi. Ma chiunque abbia fatto una corsa anche sulla breve distanza sa che fermarsi complica solo le cose.
Il welfare occidentale si trova a fronteggiare un paradosso simile a quello del maratoneta: da un lato deve confrontarsi con una crisi economica che impone una riduzione e un controllo continuo dei costi, dall’altro deve far fronte a un incremento dell’aspettativa di vita e, conseguentemente, delle malattie croniche ad esso correlate (Taylor-Gooby, 2013). Questa doppia crisi impone una trasformazione non solo organizzativa ma culturale del sistema assistenziale e del management sanitario. Similmente ad altri sistemi organizzativi la sanità sta abbandonando un approccio esclusivamente basato sull’ottimizzazione scientifica delle risorse, per indirizzarsi verso un nuovo e più efficiente concetto di sostenibilità condivisa tra tutti gli attori coinvolti (ad es. con l’introduzione dell’approccio olistico del lean thinking): dai governi nazionali e locali alle amministrazioni ospedaliere, dagli operatori ai pazienti e alla loro rete sociale.
Questo cambio di paradigma può originarsi solo attraverso la diffusione e l’assimilazione di un un nuovo modo di pensare la sanità pubblica in tutti i suoi gangli decisionali. In particolare gli operatori si trovano a ridefinire, o meglio estendere, i loro ruoli da una originaria funzione di esperti clinici a manager in grado di declinare e perseguire una vision organizzativa. Si trovano ad affrontare la ricostruzione di aspetti nucleari della loro identità (Butler, 2006), come se l’inclusione di nuovi elementi legati alle capacità manageriali potesse sminuire il senso personale e sociale che loro attribuiscono alla propria professione. Possono riuscire a trovare un’alternativa solo e soltanto se vecchi e nuovi ruoli non sono percepiti in antitesi. Quello che spesso gli operatori riportano come centrale nella loro vita professionale è l’obiettivo, l’ambizione di voler e poter essere utili ai pazienti. Un obiettivo che può essere perseguito solo considerando i vincoli sia clinici che organizzativi dei percorsi diagnostico-terapeutici.
Il cambiamento di cui stiamo parlando rappresenta un breaking point all’interno dei percorsi di formazione dei dirigenti medici e infermieristici. In un ottica di continuing education tutti gli stakeholder coinvolti dovrebbero infatti favorire, dai percorsi universitari a quelli ospedalieri di aggiornamento e team-building, una vision organizzativa che integri le competenze cliniche con quelle gestionali e relazionali. Possiamo infatti considerare un reparto come un sistema aperto in un’ottica di continuità con altri sistemi attigui: reparti e strutture sanitarie, organizzazioni politiche e amministrative, i pazienti e le loro famiglie, le associazioni di volontariato ed oltre.