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L’effetto a cascata del coaching: dagli obiettivi personali a quelli organizzativi

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Nonostante il continuo incremento di pubblicazioni e ricerche, non sembra esistere una definizione unica e condivisa di cosa sia il coaching. I vari autori evidenziano però alcuni elementi ricorrenti: (i) la multidisciplinarità delle tecniche al variare dei diversi approcci e orientamenti; (ii) la presenza di obiettivi condivisi tra coach e coachee alla luce di personali punti di forza e di debolezza; (iii) l’analisi di un contesto di riferimento, ovvero l’organizzazione di appartenenza, in cui la persona si sperimenta e mette alla prova tali obiettivi. Il coaching diviene quindi un intervento personalizzato in cui si favorisce una crescita professionale a partire dalle specificità proprie dei clienti e del loro ambiente di lavoro.

Queste poche coordinate comuni dovrebbero pertanto guidare verso una definizione forse ancora più importante: in cosa consista e come sia possibile valutare l’efficacia del coaching stesso. Nell’ultimo numero dell’European Journal of Social Science, due ricercatori hanno cercato di rispondere a questa domanda. La loro attenzione si è focalizzata sulla necessaria integrazione tra una prospettiva personale, che favorisca l’emergere delle possibilità di crescita dei clienti, e una prospettiva organizzativa, in cui si definiscano i vincoli esterni al setting degli obiettivi e dell’efficacia stessa. Secondo questa prospettiva possiamo considerare quattro livelli:

  1. Obiettivi immediati del processo di coaching (valutabili nei cambiamenti personali attraverso test, feedback, apprendimenti specifici).
  2. Cambiamenti mediati nell’ambiente organizzativo (valutabili nel clima interno al gruppo lavorativo di riferimento).
  3. Successo organizzativo e outcome riflessi nei compiti (valutabili nelle task quotidiane per come vengono ad esempio recepite dalla clientela esterna).
  4. Immagine distintiva (valutabile negli effetti su i gruppi di interesse esterni tramite ad esempio l’analisi del brand e dell’immagine commerciale).

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Soft skills & iron men: tips to change

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Secondo un recente sondaggio Gallup gli americani ritengono che il sistema scolastico dovrebbe occuparsi particolarmente delle soft skills. Ovvero di abilità quali pensiero critico, comunicazione, definizione degli obiettivi, motivazione, collaborazione, creatività,  etc. Le stesse abilità che risultano sempre più correlate al successo lavorativo. Questi sondaggi evidenziano un cambiamento nell’opinione pubblica che sembra corrispondere ai nuovi modelli manageriali che sia l’accademia che il mercato tendono a premiare. Da un lato infatti si valorizzano sempre di più le capacità di ottimizzazione e innovazione del management,  dall’altro i manager vincenti, agli occhi del mercato e dell’opinione pubblica,  hanno caratteristiche fino a pochi anni fa impensate.

Esemplare è in tal senso la fama di Elon Musk, paragonato da alcuni giornalisti niente meno che al supereroe Iron Man. Il fondatore di PayPal è tornato nuovamente alla ribalta per la progettazione di un nuovo sistema di trasporto che connetterà Los Angeles e San Francisco in circa 30′ (ad una velocità di quasi 1300 km/h). Quello che colpisce di Musk è la capacità di vision e progettazione che ha mostrato in ambiti assai diversi (PayPal,  Tesla Motors, SpaceX e adesso Hyperloop) cercando di coniugare sostenibilità e innovazione.Leggi tutto »Soft skills & iron men: tips to change

Auto-efficacia e performance

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Se non sei felice qui ed ora, non lo sarai mai (detto Zen)

Nel nuovo numero del Journal of Management si è cercato di approfondire un dibattito relativo alla correlazione tra auto-efficacia e performance. Gli editors di questo volume, Yeo e Neal, hanno cercato di ribattere ad una precedente critica avanzata da Bandura al loro modello. Da un lato Yeo e Neal (2006; 2013) sostengono come l’auto-efficacia percepita da un soggetto sia negativamente associata alla sua performance, dall’altro Bandura (2012) sostiene da sempre la tesi opposta: l’auto-efficacia è direttamente correlata alla performance.

Per comprendere questo dibattito, apparentemente accademico e teorico, dobbiamo meglio analizzare i presupposti da cui i diversi autori procedono. Albert Bandura, considerato il padre della teoria sociale dell’apprendimento, sostiene come l’esistenza di correlazioni negative o nulle tra questi due concetti sia dovuta al non considerare variabili terze che sono comunque in gioco. Secondo questa prospettiva l’auto-efficacia si colloca all’interno di un modello dell’apprendimento in cui la performance è sempre e solo definibile in relazione ad un gruppo sociale di riferimento. Un manager valuta la sua performance efficace alla luce dei feedback e delle relazioni che stabilisce nel suo team e nell’ambiente sociale della sua azienda. A questa tesi Yeo e Neal si contrappongono rilevando come le loro ricerche vogliano concentrarsi sulle reti e sui livelli di significati interni ad una persona. Se solitamente gli studi sull’auto-efficacia confrontano esclusivamente la performance tra diversi soggetti, loro indagano invece come le diverse esperienze di un soggetto possano condizionare la sua percezione di efficacia e performance. La performance di un manager non è valutabile in assoluto ma solo in relazione a specifiche task e a specifiche sue esperienze rispetto a quella task. Altrimenti l’auto-efficacia percepita rischia di essere un ostacolo nello svolgere il proprio lavoro.Leggi tutto »Auto-efficacia e performance

Best 2013 News

BBC: Numbers of the year Brookings: Top economic stories Forbes: Most innovative companies Foreign Affairs: International politics Gallup: Global economy Harvard Business Review: Management’s ideas

Leadership research: verso un cambio di paradigma

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La ormai famosa rivista The Leadership Quarterly festeggia 25 anni di attività. Nel commemorare questa lunga storia gli editori hanno chiesto ad alcuni membri del board editoriale di scrivere una review delle pubblicazioni sulla leadership degli ultimi 25 anni. Tale review si focalizza però sull’analisi delle metodologie qualitative e storiometriche (Parry et al., 2013) e non sui tradizionali studi quantitativi e psicometrici. Gli assunti da cui si muovono gli autori sono due:

  1. gli studi sulla leadership hanno dedicato sempre maggiore attenzione agli approcci qualitativi;
  2. tale trend rappresenta un cambio di paradigma nelle strategie e nei metodi di ricerca in generale.

Se fino agli 80′ gli studi sulla leadership erano suddivisi in modelli teorici e ricerche quantitative su ampi campioni, oggi giorno sono sempre più frequenti case studies, analisi linguistiche e storiometriche. In tali studi sono infatti confluiti due approcci di ricerca squisitamente qualitativi: la Grounded Theory e la Content Analysis. La Grounded Theory (Glaser et al., 1999) è una metodologia delle scienze sociali che ribalta il modo di pensare tipico della scienza. Se la ricerca tradizionale formula una teoria e poi ne cerca conferma nei dati, la Grounded Theory assume che la teoria debba invece emergere dai dati. Secondo questa prospettiva il ricercatore deve sospendere i propri giudizi sino alla conclusione di una prima fase di analisi dei dati. Alla base di questo approccio vi è la convinzione che la scienza non sia altro che l’insieme delle personali interpretazioni di uno o più scienziati. Pertanto la metodologia deve chiaramente elicitare l’intervento interpretativo del ricercatore nella raccolta dei dati, nella loro analisi e nella formulazione di una teoria esplicativa. Nè i dati nè le teorie sono infatti scoperte, ma rappresentano bensì una costruzione più o meno condivisa tra ricercatore, partecipanti e comunità scientifica: “l’attività scientifica non riguarda la natura, è piuttosto una violenta lotta nel costruire la realtà” (Latour & Woolgar, 1986, p. 243).Leggi tutto »Leadership research: verso un cambio di paradigma