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Follow me, I’m right behind you!

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Nell’ultimo numero del Journal of Social Sciences è stato pubblicato un articolo in cui si cerca di applicare la teoria della complessità alla leadership organizzativa. Tale teoria, sviluppatasi tra gli anni 60′ e gli anni 90′ (Lloyd, 2006; Prigogine, 1991), rappresenta una visione interdisciplinare della scienza in cui si definisce un sistema complesso come caratterizzato da:

  1. le qualità emergenti non riconducibili alle sue componenti originarie, in cui la totalità è più della somma delle parti;
  2. un modello di auto-organizzazione del sistema stesso attraverso dei processi ricorrenti che lo rendono autonomo dall’ambiente circostante;
  3. una tendenza ad esibire comportamenti lontani da un equilibrio stabile a seguito delle continue interazioni e scambi con l’esterno;
  4. un insieme di proprietà che includono anche l’osservatore (che crea e definisce il modello) come oggetto di indagine per la comprensione del sistema stesso.

Tali modelli scientifici si riferiscono pertanto a tutta una vasta gamma di sistemi, appunto complessi, che includono tutte le forme di vita e le organizzazioni sociali dell’uomo. Queste organizzazioni sono infatti difficilmente comprendibili attraverso approcci lineari che idealizzano la loro struttura, i loro processi interni e i loro rapporti con quanto li circonda. Nell’esperienza lavorativa sperimentiamo ogni giorno come l’assumere che un’azienda rappresenti un sistema stazionario e stabile nel tempo, ci esponga spesso a fallimenti e criticità ricorrenti.Leggi tutto »Follow me, I’m right behind you!

Il dilemma del prigioniero

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In un articolo del Journal of Management Studies ci si chiede quando sia consigliabile un CEO esterno all’azienda per favorire un cambiamento strategico (Karaevli & Zajac, 2013). Gli autori hanno condotto uno studio longitudinale su numerose aziende confrontando i cambiamenti ottenuti da CEO outsider e insider. Le analisi hanno mostrato dei risultati apparentemente contro-intuitivi, evidenziando come spesso l’outsider possa risultare efficace in una condizione di stabilità. Un manager esterno sembra essere consigliabile in presenza di un successo di lunga durata, piuttosto che nel mezzo di una crisi o di un’instabilità organizzativa. Siamo infatti soliti pensare che un punto di vista esterno sia utile nell’affrontare un problema (e su questo principio si basa gran parte della consulenza organizzativa), ma per comprendere i risultati di questo studio dobbiamo forse prendere in considerazione ulteriori fattori.

Lo studio mostra sicuramente dei limiti non ponderando come un’azienda in crisi possa non avere le risorse e l’appeal per ‘reclutare’ un outsider di alto livello. Ma in ogni caso i due autori ci invitano a riflettere su quali siano i vantaggi e gli svantaggi nel mantenere una determinata cultura e strategia organizzativa. Un cambiamento strategico rappresenta (o meglio dovrebbe rappresentare) una nuova prospettiva, “un cambiamento di secondo ordine” (Watzlawick et al., 1974, p. 25) in cui i termini e gli elementi del discorso variano permettendo un nuovo modello di organizzazione e sviluppo aziendale. La ricerca di una soluzione alla crisi richiede pertanto che si riconsiderino i processi usuali e si tenti di declinare in maniera innovativa la vision e la mission. Un caso esemplare è forse quello di Sam Palmisano che da insider rivoluzionò la strategia di IBM, pur mantenendo gli elementi cardine della sua cultura aziendale in un momento di estrema crisi (Hemp & Stewart, 2004). Riuscì nell’intento grazie alla sua conoscenza dell’azienda e alla sua apertura al cambiamento che lo portò a coinvolgere tutti i dipendenti nel definire quali fossero i core issues della vision di IBM. Qualunque riorganizzazione deve essere infatti condivisa e poi incarnata da tutti i livelli del management e dai dipendenti stessi per far sì che non resti una mera dichiarazione di intenti. In questo processo svolge un ruolo chiave la conoscenza della cultura aziendale e la disponibilità (in particolare del CEO) a rendere tale cultura il veicolo e il confine di ogni possibile strategia.Leggi tutto »Il dilemma del prigioniero

Balancing global & local issues

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Negli ultimi 20 anni il tema della globalizzazione è divenuto una sorta di dato di fatto, di cui ogni autore crede di avere la giusta chiave di lettura. Quando cerchiamo di orientarci in questa babele di opinioni ci scontriamo con molte teorie e con ben poche indicazioni pratiche. Nell’ambito degli studi sul management si è dovuto invece confrontarsi con dei problemi squisitamente applicativi, legati alla sempre maggior diffusione delle multinazionali. Tutte le aziende che operano in nazioni e in culture assai diverse devono trovare un modo per bilanciare un’organizzazione globale con diverse programmazioni e strutture locali. La Cornell Univesity ha recentemente pubblicato un executive summary in cui si cerca di proporre delle linee guida passando in rassegna gli studi esistenti (Lee & Shah-Hosseini, 2013).

Gli autori partono dall’assunto che la cultura non sia un semplice collage di opinioni, ma bensì un sistema complesso che coinvolge aspetti (valori, comportamenti, artefatti, etc.) e dimensioni (psicologiche, geografiche, fisiche, etc.) diverse. Si assume e si dimostra inoltre che l’efficacia di una multinazionale sia legata alla capacità di monitorare e integrare tutti i fattori che condizionano l’adattamento a diverse culture (Ni Ho et al., 2012). Uno dei modelli più diffusi e utilizzati individua sei fattori principali (Hofstede et al., 1990):

  1. Power Distance: quanto iniqua venga percepita una società da parte di chi ha meno potere.
  2. Individualism vs Collectivism: indica la preferenza rispetto a reti sociali in cui ci si aspetta oppure no un supporto da conoscenti e membri di un gruppo.
  3. Masculinity vs Femininity: si definiscono mascoline le società che mostrano una preferenza per assertività e competitività, femminee quelle orientate alla cooperazione e alla mutua assistenza.
  4. Uncertainty Avoidance: rappresenta il grado in cui i membri di una società si sentono a loro agio nell’affrontare l’incertezza.
  5. Long-term vs Short-term Orientation: esprime il livello di normatività e tradizionalismo di una società.
  6. Indulgence versus Restraint: descrive quanto una società permetta ai suoi membri di perseguire i propri scopi personali.

Sebbene questo sia solo uno dei modelli possibili che ovviamente non esaurisce la definizione di cosa sia una società e quale sia la sua cultura, nel corso degli anni si è dimostrato estremamente utile nel valutare la performance di un’azienda multinazionale. In questo specifico ambito può offrire pertanto degli spunti utili per orientare una strategia manageriale.Leggi tutto »Balancing global & local issues

Consulenza organizzativa: come scampare alle sirene dell’onniscienza

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Il Consulting Psychology Journal ha recentemente pubblicato un case study su un percorso di consulenza organizzativa. Al di là della riproducibilità e dell’efficacia dell’intervento, quello che è interessante notare è che uno degli autori (e commentatori del caso) è il cliente stesso.

Consulenza Manageriale

I consulenti (e primi due autori dell’articolo) si muovono a partire dal classico modello di Schein sulla consulenza organizzativa. Tale modello, affinatosi nel corso degli anni, è stato il primo a definire come elemento centrale della consulenza la relazione reciproca tra aiutante e aiutato, tra consulente e cliente. Tale reciprocità permette di prevedere e monitorare i bias relativi alle soggettive percezioni degli attori coinvolti, piuttosto che considerarle come verità a priori. In particolare il modello di Schein aiuta a focalizzarsi su: (i) le reazioni emotive agli eventi in esame; (ii) le diverse interpretazioni alla base delle possibili scelte; (iii) la definizione e la consapevolezza di cosa sia conosciuto, conoscibile, ignoto a clienti e consulenti. Si assume un processo continuo e reciproco in cui il cliente non è uno spettatore passivo, ma piuttosto un attore fondamentale nella definizione e nel raggiungimento degli obiettivi.Leggi tutto »Consulenza organizzativa: come scampare alle sirene dell’onniscienza

Giochi linguistici e giochi strategici

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Siamo soliti considerare una strategia aziendale come una serie di scelte definite a priori che uno o più manager di alto livello hanno condiviso, prima tra di loro, poi con i loro collaboratori. Siamo anche soliti considerare queste scelte come decisioni esclusivamente consapevoli ed intenzionali. Tanto più una strategia è chiaramente e formalmente predeterminata, tanto più riteniamo che sarà efficace e condivisa.

In un recente articolo del Journal of Management Studies si è cercato di rivisitare il concetto di strategia alla luce di un modello teorico e applicativo che appare assai in contrasto con questa prospettiva formale e predeterminata. In particolare l’autore fa riferimento agli studi di Henry Mintzberg che sin dall’inizio degli anni ‘90 ha esplorato il divario esistente tra una pianificazione strategica e la sua effettiva attuazione nei contesti organizzativi. Secondo questo approccio la strategia sembra essere la risultante di una serie di scelte, nella maggior parte informali e non predeterminate, che emergono nella rete di significati condivisi tra i membri di un’organizzazione. Al di là della vision di un leader quello che sembra contare maggiormente è come i vari livelli di un’azienda recepiscono ed elaborano le scelte manageriali nel loro quotidiano. Tanto è maggiore la distanza tra un modello teorico ideale e la sua applicazione, tanto meno efficaci sembrano essere le scelte strategiche operate dalla dirigenza.Leggi tutto »Giochi linguistici e giochi strategici

Vision e innovazione: la responsabilità personale dei leader

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Negli ultimi anni sono stati proposti numerosi modelli e approcci diversi alla leadership. Gli autori hanno cercato di identificare delle dimensioni per loro rilevanti nella gestione di un team di lavoro e di definire un paradigma che coerentemente esemplificasse un leader e una leadership ideale. In ogni modello (situazionale, carismatico, trasformazionale, etc.) è riconoscibile un focus, un nucleo teorico da cui discendono delle implicazioni applicative attraverso le quali un team possa lavorare efficacemente al raggiungimento degli obiettivi aziendali.


Indubbiamente l’identificare specifiche dimensioni e contesti ha reso questi modelli di facile comprensione e immediata fruibilità. Chiunque svolga una funzione di leader o abbia una formazione manageriale conosce i quattro stili della leadership situazionale o le quattro fasi della formazione di un team. Ciò nonostante se chiediamo a uno di questi manager in che misura applichi e trovi giovamento da questi modelli le risposte sono assai varie e mai incontrovertibili.

I manager si confrontano infatti ogni giorno con realtà assai disparate e con scelte che raramente sono riconducibili a questi schemi ideali. Il loro lavoro li obbliga a declinare, rivisitare, spesso stravolgere le conclusioni riportate nei vari handbook e chiedersi se i problemi nascano dalla teoria scelta o dalla personale applicazione. In un’organizzazione for-profit quello che definisce l’efficacia di una leadership ha infatti a che fare con le specifiche interazioni tra il leader e i suoi collaboratori. Alcuni autori (Blaney, 2013) hanno infatti rilevato come confinare la leadership in un modello risulti svantaggioso in quanto ogni azienda ha sue caratteristiche organizzative (organigramma, funzionigramma, vision, etc.) e relazionali (legate alle singole persone che la compongono). In particolare si evidenzia come al di là degli ideali, al leader spetta la responsabilità di definire i valori, ovvero i vincoli, all’interno dei quali i suoi collaboratori si muoveranno. Pertanto la vision e la mission di un’azienda o di un team non possono essere slogan ma devono corrispondere ad una visione del futuro che il leader per primo incarna e porta a verifica nelle quotidianità.Leggi tutto »Vision e innovazione: la responsabilità personale dei leader

Il precario equilibrio tra coraggio e compromessi

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Nel 1955 John Fitzgerald Kennedy decise di distrarsi dalla sua degenza per un intervento alla schiena, scrivendo un libro su quella che Hemingway chiamava la “grazia sotto pressione”, ovvero il coraggio. Ne uscì una raccolta di alcuni Profiles in courage in cui illustrava le vite e le carriere di personaggi politici che lo avevano ispirato.

Nell’introduzione JFK esalta la virtù del coraggio come una delle caratteristiche che rendono grande un leader. La descrizione che da di questa dote non è però una vaga e buonista dichiarazione di intenti. Emerge piuttosto una tenacia nel perseguire propri obiettivi e sogni senza mai perdere il contatto con il contesto, le persone che ci circondano. Così nel parlare dei compromessi che spesso sminuiscono e offuscano i buoni propositi dei politici, Kennedy precisa come le pressioni dell’opinione pubblica, dei colleghi, delle lobby rappresentino un ineludibile banco di prova. Un politico può, a suo avviso, cedere alla banale logica del do ut des, oppure considerare due presupposti che possono trasformare il compromesso in una mediazione necessaria a rendere percorribile la propria vision. Da un lato infatti ogni leader prende decisioni che scientemente influenzano le scelte di altri e quindi non può prescindere da loro. Dall’altro è animato come ogni persona dal desiderio di essere riconosciuto e apprezzato da chi lo circonda.Leggi tutto »Il precario equilibrio tra coraggio e compromessi

Sfide e vincoli del welfare: il paradosso del maratoneta

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Se desideri vincere qualcosa puoi correre i cento metri.

Se vuoi goderti una vera esperienza corri una maratona. Emil Zátopek

La maratona rappresenta una delle massime sfide atletiche. Si tratta di affrontare uno sforzo fisico a cui il corpo umano, in teoria, non è predisposto. Le energie che un corridore può immagazzinare dureranno al massimo 32 km, mentre la gara consiste di oltre 42 km. Ad ogni passo le risorse diminuiscono, i muscoli si fanno più pesanti. Per arrivare al traguardo l’atleta deve dosare le sue energie, deve programmare la sua corsa valutando bene le sue possibilità e i vincoli dati dal tracciato. Tanto più si avvicina al traguardo, tanto più aumenta il desiderio di fermarsi, riposarsi. Ma chiunque abbia fatto una corsa anche sulla breve distanza sa che fermarsi complica solo le cose.

Il welfare occidentale si trova a fronteggiare un paradosso simile a quello del maratoneta: da un lato deve confrontarsi con una crisi economica che impone una riduzione e un controllo continuo dei costi, dall’altro deve far fronte a un incremento dell’aspettativa di vita e, conseguentemente, delle malattie croniche ad esso correlate (Taylor-Gooby, 2013). Questa doppia crisi impone una trasformazione non solo organizzativa ma culturale del sistema assistenziale e del management sanitario. Similmente ad altri sistemi organizzativi la sanità sta abbandonando un approccio esclusivamente basato sull’ottimizzazione scientifica delle risorse, per indirizzarsi verso un nuovo e più efficiente concetto di sostenibilità condivisa tra tutti gli attori coinvolti (ad es. con l’introduzione dell’approccio olistico del lean thinking): dai governi nazionali e locali alle amministrazioni ospedaliere, dagli operatori ai pazienti e alla loro rete sociale.

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Natura versus cultura: un dilemma insolubile?

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A devil, a born devil, on whose nature, nurture can never stick” (Shakespeare, The Tempest, 4.1)

Sin dalla nascita della moderna etologia il dibattito su natura e cultura ha animato e diviso scienziati e pensatori di vario genere. Nei più disparati campi del sapere ci si è chiesti dove genetica e ambiente intervenissero e se vi fosse un primato nello sviluppo delle caratteristiche di comportamento, sia negli animali che negli uomini. Riflettendo sugli studi di Darwin, Francis Galton coniò l’antitesi che sarebbe divenuta tanto famosa: nature versus nurture (appunto natura versus cultura, o meglio educazione). Se in ambito etologico il dibattito sembra aver superato questa antitesi, evidenziando un’interazine tra geni, ambiente e plasticità comportamentale (Allcock, 2013), nello studio dell’uomo si succedono ancora prese di posizioni nette, per non dire dogmatiche.

Durante il 2012 la rivista The Leadership Quarterly ha pubblicato due numeri (vol. 23-2 e 23-4) interamente dedicati alla possibile origine genetica della leadership e dei tratti di personalità ad essa collegati. Queste e altre pubblicazioni stanno riaccendendo un dibattito che sembra perdurare e appassionare (Science Daily, 2013). Come spesso accade, da un lato, abbiano studi disparati che cercano di analizzare (e integrare) aspetti specifici del comportamento umano, dall’altro abbiamo tentativi di semplificare (anche a costo di un certo riduzionismo) la complessità delle scelte e della vita umana. Negli articoli divulgativi è interessante notare come, ad esempio, di tutta la mole di dati pubblicati si riportino solo sensazionali e apparentemente risolutive ricerche su genotipi specifici della leadership. Nel confrontare gli studi specialistici, ab origine, con le riflessioni di vari opinionisti sembra emergere un bisogno, tutto umano, di semplificare le nostre conoscenze e rendere la vita facilmente prevedibile, controllabile. Di fronte alla complessità e al continuo fluire della vita restiamo spesso smarriti, come in balia di onde troppe alte e ricorrenti. Una spiegazione univoca ci lascia spesso la convinzione che ciò che stiamo escludendo sia superfluo e quindi non necessariamente considerabile. Ci dimentichiamo che “l’uomo che dispone la sua vita in termini di convinzioni specifiche e inflessibili su questioni temporanee rende se stesso vittima delle circostanze” (Kelly, 1955/1991, p. 16).

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